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L'oggi del diritto

Adriana Cosseddu, Professore di Diritto Penale Commerciale - Università  di  Sassari

Lo spazio giuridico contemporaneo possiamo vederlo contrassegnato dalle domande fondamentali: GIUSTIZIA - LEGALITÀ; domande di sempre, ma anche nuove per l'orizzonte della globalizzazione nella quale oggi si collocano.

Eppure, vi è anche una domanda che segna l'inquietudine, diffusa a diversi livelli, e non assente neanche dal diritto. Una conferma sembra emergere da un recente lavoro monografico
(di N.Irti,1aed. 2004) sul "nichilismo giuridico", dove si traccia un diritto, quale quello moderno, «... senza destinazione», senza un "dove" e un "perché". Un diritto, che nel "politeismo dei valori" si riduce a "produzione di norme", consegnato alla «solitudine della volontà umana».

Il diritto arriverebbe così a condividere, con l'arbitrarietà della stessa volontà umana, la strumentalità in vista di scopi e interessi generatori di conflitti tra visioni del mondo diverse, per esprimersi come "volontà di potenza", singola o collettiva.

Un diritto non più solo "positivo" ma "im-positivo" con la forza della norma giuridica, tecnica fra le altre tecniche, "prodotto" che - come tale - «non serve più a conoscere la verità ».

Ma il cammino dell'umanità, dove l'uomo vive accanto all'altro uomo, può aprire ad un'altra dimensione, nella quale gli interrogativi del giurista "dialogano" con le istanze e le attese di risposte ai bisogni degli uomini d'oggi. Il diritto, se così è, entra nella vita dell'umanità e, rompendo gli argini di un sistema che può apparire "chiuso" nel "recinto" delle norme, si apre e supera ogni formalismo per "tessere" i rapporti tra le persone a qualunque latitudine.

Si comprende allora quella lettura del diritto che richiama come sua componente la figura dei protagonisti di un percorso che penetra la storia: possiamo forse pensarlo limitato ai soli operatori del diritto, e invece, già alla metà del ‘900 emerge un «diritto... opera di tutti»; e  Ferrajoli, ricordando "la lezione di Bobbio", sottolinea: «Il diritto è una costruzione umana e... di esso noi portiamo la responsabilità: come filosofi, come giuristi, come cittadini» [1]. È dunque un orizzonte che tutti ci riguarda con le sue inquietudini, conflitti, rivendicazioni di ogni identità nella diversità culturale, etnica, religiosa, ma anche per le aspettative di giustizia, attesa di difesa dei diritti individuali e sociali, ricerca ed impegno scientifico volto ad offrire risposte per l'oggi dell'umanità e per l'umanità di oggi.

Proviamo inizialmente a ripercorrere alcune tappe, che possono contribuire a collocarci nello spazio giuridico dell'uomo contemporaneo per cercare di comprenderne esigenze e prospettive.

Il panorama attuale offre spesso una visione del diritto che rischia di essere per sé percepito come "pura forma" e che nel contempo necessita di una forma giuridica, che fonda la possibilità del giudizio e nel giudizio il «far valere» la verità. Da qui l'emergere nella percezione diffusa di un'apparente mancanza di umanità, così che la validità formale del diritto ne sottolinea unicamente l'astrattezza. È il divenire del diritto descritto come strumento formale del potere o prodotto della volontà riflessa dello Stato, che al di là della necessaria distinzione «separa» la sfera del diritto dalla pluralità di esperienze, di cui si compone l'esistenza umana. Da un lato, il diritto come attività della ragione, che si apre alle ragioni della vita e si manifesta, secondo una recente definizione, come azione e attività guidata da regole, spesso rafforzate da sanzioni specifiche, e organizzate in strutture procedurali al fine di garantire e perseguire valori fondamentali della vita personale e sociale [2].

Dall'altro lato, risalendo nel tempo all'epoca della "tecnica" e della "scienza", oggi potremmo dire, agli albori dell'età tecnologica, la concezione del diritto si confronta, ed è la riflessione heideggeriana fondata sulla «filosofia dell'esistenza» [3], con un'attività che tende alla calcolabilità della certezza di tutto ciò che entra in relazione col soggetto e la libertà si perde «nella riduzione della verità a certezza e del conoscere a scienza».

La determinazione di sé e il proprio porsi «anche come metro normativo»fa sì che l'uomo, «autofondatosi», diventi «il metro di ogni qualificazione». L'"io penso", assunto a «fondamento della nuova certezza», origina il valore come ciò che è posto dalla volontà (rectius «volontà di potenza»). Laddove «il diritto è pensato a partire dalla ragione calcolante e dalla verità come certezza» si delinea la riduzione di «ogni rapporto coll'altro solamente ad un rapporto con ciò che è «utilizzabile». Questa restrizione dell'uomo ad elemento calcolabile», legata per Heidegger all'evento di una tecnica che investe tutte le sfere dell'essente (natura, cultura, politica), «tende ad eliminare l'«io» ed il «tu» come elementi dell'incontro tra gli uomini per lasciar posto alla sola sfera dell'anonimato. L'ordine giuridico si restringe a momento tecnico esteriore dell'uomo, a pura forma il cui contenuto è storicamente... casuale». Eppure, se in questa nuova epoca, che introduce al nichilismo di stampo nietzschiano, si perde l'essenza originaria della stessa giustizia, mutata in «giustificazione», ed il diritto diventa «prodotto della volontà di potenza» [4], la riflessione heideggeriana sembra al contempo cercare nel passato nuova linfa. Si sofferma - secondo l'analisi in esame - sulla diversa lettura della giustizia come ciò che accorda e coordina nel rispetto (τίσις) degli «uni verso gli altri» (in un nesso che «costituisce il momento essenziale della giuridicità»). È la dimensione, persa dalla storia eppure non cancellata nell'esistenza, del comune legame tra gli uomini, in cui si realizzano «la socialità... ed il dialogo autentico», dove - si spiega - «i molti divengono uno, pur rimanendo autenticamente  se stessi». Così il diritto, «come una delle forme della socialità», può aprire la stessa a rendere autentica «l'esistenza umana liberandola dall'isolata egoità». Sono pagine nelle quali, al di là di una lettura che accede alla conclusione negativa nella sua essenza ed alla negatività dell'esistenza, l'indagine evidenzia nell'uomo - l'«ec-sistente (aperto al divino) nel suo essere-con-gli-altri» - la possibilità di preparare «la via ad una giustizia che è condizione per il rispetto e la deferenza degli ec-sistenti nelle loro relazioni» [5].

È il cammino, ma anche la crisi profonda, di quel diritto al quale si chiede, se così possiamo esprimerci, non tanto o non solo di definire il "mio" e il "tuo", piuttosto di ricercare - come un quid novi - ciò che al di là del "mio" e del "tuo" può diventare "nostro", una realtà terza che si compone nella relazione tra i soggetti.

 Lo stesso esistenzialismo, che guarda con "disincanto" all'uomo nella sua individualità, per lasciar posto in Heidegger alla consapevole proiezione sull'uomo contemporaneo, si apre nel contempo ad una diversa e positiva lettura volta a superare quell'incapacità, che chiude l'uomo nella "singolarità" del suo Io. Si scrivono pagine capaci di ridisegnare nella dimensione positiva della socialità le basi umane del diritto che - si osserva - «non possono essere negate senza distruggere la stessa esperienza giuridica» [6]. Si rilegge dunque la storia, anche del diritto, come "storia dell'umanità, "storia dei fatti umani", in cui tutta l'esperienza concreta e storica del diritto è orientata a «questo unico punto vivo che è la persona». È il recupero della dimensione del diritto come sua affermazione e suo obiettivizzarsi, in quanto è «la stessa presenza della persona nel concreto» che spiega la presenza del diritto nella storia e la definizione delle «modalità dei diritti». La norma giuridica, al centro del rapporto tra soggetti, trae la sua «giuridicità» dall'"alteritas", ovvero un'alterità che segna la connessione tra diritto-dovere giuridico [7]. Nel mondo delle esperienze che costituiscono la storia prende vita - si spiega - quell'esperienza giuridica, che assume il suo contenuto dalle attività dei soggetti, che tutti insieme arrivano a «dar vita a un ordinamento nel quale la vita si esplica e l'azione si realizza in modo conforme... ai suoi fini umani» [8]. Quei "frammenti" in cui si snoda la vita dell'uomo, familiare, sociale, affettiva, in realtà si incastonano nell'esistenza umana che è o dovrebbe essere totalità che si esprime in forme diverse. Nella comune umanità «ognuno di questi momenti è una relazione con l'altro uomo: esistenza dell'uomo è la totalità di queste relazioni», alcune scaturite per l'incontro in un interesse comune, in cui si uniscono le volontà (contratti-società), altre realizzate in una consapevole comunione di vita (famiglia), altre correlate per un cammino solidale (vita nello Stato), altre suggerite dal bisogno dell'aiuto reciproco. «L'uomo che si è riconosciuto come natura comune di queste relazioni,... unità di tutto questo variare di fini, e centro di questo moltiplicarsi di azioni è la persona», che vive nella dimensione giuridica. La persona, «possibilità originaria di tutte le relazioni» è, «realtà attiva», "unità viva" nella «pienezza di relazione e di rapporti», è «la relazione per eccellenza nella sua intrinseca sostanza e nel suo valore intrinseco» [9]. Se, si osserva, «tra tutte le cose, che si scontrano con la sua vita, il soggetto ne trova alcune nelle quali vede come rispecchiata la sua vita», vite simili alla sua, ciò è prova di quella connessione tra i soggetti, che si esprime nella parola e si determina nell'azione. È la percezione di altri soggetti simili a sé, «riprova che l'esperienza dà... dell'idea che mostra nell'universale visione dell'essere, la fraternità di tutte le cose» [10]. In questo senso, «il diritto come realtà della persona è ... ordine per le azioni umane», venendo ad integrare quell'elemento di oggettività e garanzia che assicura il loro continuo tradursi in vita.

La concezione del diritto, del resto, nella tradizionale sintesi espressa come "rapporto ad alterum", trova spiegazione in quanto «attività che si esplica soltanto come relazione», per formare il diritto come insieme di rapporti tra individui, tra "sfere separate" che si compongono fino all'"aiuto reciproco". Vi è tuttavia una dimensione ulteriore. Studi recenti sottolineano oggi la "centralità della persona umana" ad indicare nel c.d. "principio dell'antropocentrismo" la posizione dell'uomo anche rispetto ad entità non umane, come l'ambiente o l'ecosistema. Se, infatti, l'oggettivarsi della volontà ha come sua componente l'attribuzione di responsabilità, è l'uomo l'unico essere capace di assumere una «‘consapevole responsabilità'», nei confronti di ciò che lo circonda [11]. L'oggetto della tutela normativa, o se si vuole i beni che attendono dall'ordinamento protezione, non starebbero allora tanto nelle cose o nell'uomo quale entità astrattamente intesa; si tratta piuttosto di un «rapporto», una relazione, che ne diventa elemento fondante. In quest'ottica, ed ampliandone la prospettiva, quasi a superamento della categoria della "estraneità" dell'uno verso l'altro potremmo rileggere e condividere quanto, a conclusione dell'indagine sull'esperienza giuridica, si dice della stessa: «trova la formula e crea il mondo della... vita comune», delle varie esperienze, della loro comunione di vita allorché scopre «la legge comune», a cui obbediscono il soggetto, il mondo dei soggetti; compone «la unità nella pluralità la pluralità nell'unità» [12]. L'uomo, termine della relazione e soggetto della comunione con i suoi simili, ne riconosce l'uguaglianza per la comune umanità, ma nel contempo la diversità per la propria identità, ed in questo riconoscersi nella comune appartenenza il legame si esprime nella reciprocità costitutiva di un rapporto.

Se così è, rifondare il diritto come relazione può significare, per il necessario superamento della propria "individualità", aprire e condividere la prospettiva di tutela dalla dimensione dei diritti "propri" a quella dei diritti "altrui" [13]. Occorre forse in questa direzione un nuovo "paradigma", capace di coniugare il particolare e l'universale, far dialogare l'uno e il molteplice.

Del resto, se le stesse Dichiarazioni dei diritti - a partire dalla Dichiarazione Universale dei diritti dell'uomo (10 dicembre 1948) - in tutta la loro ricchezza e positività, nelle loro multiformi proclamazioni aprono nuovi sentieri nel cammino dell'umanità, l'uomo non vive come soggetto astratto, ma nella sua concretezza e storicità.

Da un'altra angolazione, quasi a conferma, un autorevole giurista di recente scomparso, N. Bobbio, ha intravisto proprio con la Dichiarazione del 1948 una fase in cui «l'affermazione dei diritti è insieme universale e positiva: universale nel senso che destinatari dei principi ivi contenuti non sono più soltanto i cittadini di questo o quello Stato, ma tutti gli uomini; positiva nel senso che essa pone in moto un processo alla fine del quale i diritti dell'uomo dovrebbero essere non più proclamati o soltanto idealmente riconosciuti ma effettivamente protetti» [14]. In questa duplice dimensione che va dall'universale al particolare, dalla mera proclamazione all'effettività dei diritti si può ritrovare come un legame che percorre la storia ad unire una radice antica ed una novità. La prima, quasi a conferma della natura relazionale del diritto, può ricondursi a quella ἐπιείκεια di Aristotele, spiegata quale sintomo di una esigenza di giustizia sostanziale del caso concreto, cui adeguare non solo le decisioni ma anche i comportamenti professionali. La seconda può essere colta, significativamente, nell'ambito più specifico del diritto penale. Di fronte ad un «senso di oscurità» generato nella post-modernità da «insufficienze e... incapacità», che sottolineano profili di "ineffettività" del sistema, si delinea l'obiettivo di non lasciare unicamente al legislatore i contenuti qualificanti il diritto penale medesimo, quasi in «un disimpegno valutativo a favore di una neutralità scientifica» [15]. La dimensione esistenziale riconducibile a quei "diritti dell'uomo" riconosciuti non solo a livello costituzionale nelle nazioni ma anche universale segna - si afferma - nell'"internazionalità" «la  dimensione naturale dei diritti umani» entrati a far parte del patrimonio comune dell'umanità [16].

Se così è, la ricerca, specchio di dubbi ed inquietudini, ma anche fonte di certezza e di nuove speranze, pare cogliere come un filo d'oro, che unisce l'umanità dal singolo ai popoli, ed al contempo suggerisce una domanda: come rispondere a quell'esigenza di un nuovo stile nelle relazioni, che nell'orizzonte inclusivo della globalità non può andare disgiunto da nuove forme di responsabilità? Se le relazioni come tali danno vita all'essenza stessa del diritto, si richiede oggi una risposta anche in termini di «concretezza» ed effettività, ricercate come ideale realizzazione e "fine" delle stesse relazioni personali e universali. Occorre dunque nell'oggi del diritto comporre nella "sostanziale" uguaglianza diversità e identità, ma di più: rinvenire paradigmi che nella vita concreta delle relazioni umane prevengano nei comportamenti le ingiuste alterazioni in una nuova consapevolezza di «reciprocità».

Superare dunque la logica della pretesa e della sopraffazione significa non fondare l'affermazione di sé in contrapposizione agli altri, ma accogliere il "tu" dell'altro; scoprire nella individualità di ciascuno l'essere "dono" per l'altro e l'altro dono per sè ; guardare al bene dell'altro nella misura in cui si guarda al proprio.


[1] Così L. Ferrajoli, La lezione di Bobbio, in http://lgxserver.uniba.it/lei/rasse­gna/021124a.htm. Per l'analoga riflessione in epoca precedente, G. Capograssi, Appunti sull'esperienza giuridica, in Opere, vol. III (Scritti postumi ed inediti), Milano, 1959, p. 410. È particolarmente significativo che, pur in altro contesto, si riproponga in margine al dibattito sul diritto il «triplice interrogativo  del legislatore, del cittadino e del giudice. Che cosa prescrivere? come comportarsi? in base a quale criterio decidere, cioè separare la ragione e il torto?»: sono le espressioni formulate dal prof. N. Irti, in dialogo con il prof. E. Severino, in N. Irti, E. Severino, Le domande del giurista e le risposte del filosofo (un dialogo su diritto e tecnica), in Contratto e impresa, 2, 2000, in part. p. 671.

[2] Così F. Viola, G. Zaccaria, Le ragioni del diritto, Bologna, 2003, p. 39 s.

[3] La complessità del pensiero filosofico consente in questa sede solo alcuni cenni, rinviando il lettore, per i diversi contributi e le doverose puntualizzazioni, ai contenuti sviluppati da B. Romano, Tecnica e giustizia nel pensiero di Martin Heidegger, Milano, 1969, p. 1 ss.; in particolare, circa la concezione dell'«uomo... come il solo ec-sistente», proiettato da Hidegger nella condizione generata nel dominio della tecnica dal pensiero calcolante, ivi, p. 21 s., nonché pp. 40 e 121.

[4] Per i necessari approfondimenti, Romano, Tecnica e giustizia, cit., p. 97 e p. 118 ss., nonché sul tema della giustizia ivi, pp. 122 e 133 ss. Cfr., anche per il concetto di diritto, ivi, in part.  pp. 137 e 139, ove si spiega, fra l'altro, la «nuova giustizia» non più intesa come principio volto a distinguere tra giusto e ingiusto, piuttosto come «quella potenza che autoimpone ciò che è giusto e ciò che giusto non è».

[5] Cfr. Romano, Tecnica e giustizia, cit., pp. 214 e 216 s., dove si riprende quella visione del diritto, ricondotta all'uomo nel suo originario modo d'essere, che «non è porre ma un cercare, un trovare, un aprirsi all'ascolto».          
Se le linee fin qui tracciate, e necessariamente limitate nella loro essenzialità, parrebbero collocarci in uno sguardo retrospettivo, in realtà le stesse possono contribuire a comprendere un più recente dibattito, tradotto in «dialogo su diritto e tecnica»: è l'attualissimo intervento di Irti, loc. cit., in Irti, Severino, Le domande del giurista, cit., p. 665 ss. Dello stesso Autore, sempre su profili analoghi, un altro significativo contributo emerge attraverso Una lettera di Luigi Mengoni, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2002, p. 1155 ss., in margine alla quale si sottolinea quell'«umanità del diritto», collocata quasi per contrasto in «una dichiarata "crisi" del diritto» stesso - in tale ultimo senso N. Lipari, Luigi Mengoni ovvero la dogmatica dei valori, ivi, p. 1065. Ma proprio alla luce di un «diritto come misura dell'agire umano», particolare attualità acquistano le parole conclusive con cui l'Autore intende aprire ad una prospettiva capace di superare il senso di disorientamento e disgregazione: «Ridare al diritto la sua genuina dimensione umana quale strumento idoneo a restituire nuovo spessore a rapporti che la società della tecnica tende a disumanizzare...» - così Id., Luigi Mengoni, cit., p. 1112 s.

[6] Così Opocher, Lezioni di filosofia del diritto, Padova, 1983, p. 236.

[7] Per le citazioni, di cui in testo, cfr. G. Ambrosetti, La radice unitaria del pensiero politico -sociale in Rosmini, in Iustitia, 1955, p. 39 ss.; circa la distinzione che nella dottrina rosminiana diversifica il diritto dalle modalità dei diritti, P. Landi, La filosofia del diritto di Antonio Rosmini, Torino, 2002, p. 315 ss., mentre circa l'alteritas, ivi, p. 65 ss.

[8] Capograssi, loc. ult. cit.

[9] Così, G. Capograssi, Saggio sullo Stato, in Opere, vol. I, Milano, 1959, p. 66 ss.

[10] Espressione tratta da G. Capograssi, Analisi dell'esperienza comune, in Opere, vol. II, Milano, 1959, p. 40 ss.

[11] Così M. Cecchetti, Principi costituzionali per la tutela dell'ambiente, Milano, 2000, p. 19 ss. e in part. 54 ss. Sul tema, di recente, E. Lo Monte, Diritto penale e tutela dell'ambiente: tra esigenze di effettività e simbolismo involutivo, Milano, 2004, p. 267 ss., nonché p. 326 ss.

[12] Sono le parole conclusive di G. Capograssi, Incompiutezza dell'esperienza giuridica, in Opere, vol. III (Scritti postumi ed inediti), Milano, 1959, p. 324.

[13] Sul punto F. Mantovani, La criminalità: il vero limite all'effettività dei diritti e libertà nello Stato di diritto, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 718; la riflessione sulla ‘riconsiderazione' dei diriti si colloca - ivi, p. 711 - in una visione del diritto penale, di cui si vuole sottolineare la «bidimensionalità», nel suo essere «ricostruito non soltanto come "limite alla libertà", ma innanzitutto come "strumento di tutela della libertà"», espressioni che lasciano intravedere qualcosa di più di una semplice chiave di lettura: forse un richiamo o un appello in attesa di risposta.

[14] Cfr. N. Bobbio, L'età dei diritti, Torino, 1990, p. 21 ss. Sono parole queste che parrebbero non lontane o forse evocare quel significato di "legge naturale" spiegata come «legge della ragione», ovvero «conoscenza che ha di se stessa la ragione in quanto umana» - così Viola-Zaccaria, Le ragioni del diritto, cit., p. 102 ss. È quest'ultima, per il cristiano «come una scintilla» della legge eterna, ma diventa per ogni uomo o popolo radice comune, capace di coniugare la dimensione individuale ed i valori comunitari, ad evidenziare «quel legame sociale che unisce fraternamente tutti gli individui» - così A. Pisanò, Una teoria comunitaria dei diritti umani, Milano, 2004, p. 491. Altrove, espresso con altre parole, un concetto analogo ad indicare i rapporti nella società: è la fraternità nelle relazioni sociali - così Bastiat, Giustizia e fraternità, in F. Bastiat, G. De Molinari, Contro lo statalismo, Macerata, 2004, p. 48.

[15] Così F. Palazzo, nelle "Conclusioni" al Convegno di Toledo, 13-15 aprile 2000, oggi in L. Stortoni e L. Foffani (a cura di), Critica e giustificazione del diritto penale nel cambio di secolo. L'analisi critica della Scuola di Francoforte, Milano 2004, pp. 435 s. e 439, cui seguono - come riportati in testo - i rilievi, da un lato, in ambito nazionale fondati sul «costituzionalismo penale», dall'altro, nell'orizzonte globalizzato, incentrati sui diritti dell'uomo. Se volessimo sottolineare anche il solo profilo costituzionale, potremmo provare a rileggere pagine, forse dimenticate, ma oggi vive più che mai, contenute nei Lavori dell'Assemblea Costituente, allorché si predisponeva la Costituzione italiana del 1948. Tra i tanti, un intervento di Benvenuti nella seduta pomeridiana di lunedì 17 marzo 1947, in La Costituzione della Repubblica nei Lavori preparatori della Assemblea Costituente, vol. I, Roma, 1970, p. 455 ss.: dalle sue parole, circa il contenuto della norma costituzionale inerente ai diritti inviolabili dell'uomo, emerge l'espressione rivolta a «tutti gli uomini... chiamati a collaborare alla creazione di un mondo nuovo e migliore ove regni la giustizia e la fraternità», così ivi, p. 456.

[16] Collocandosi nel dibattito tra «progresso della tecnica» e «scientismo tecnologico, ... forma attuale della volontà di potenza», L. Mengoni, Diritto e tecnica, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2001, p. 7 s., indica nei princìpi costituzionali, espressione dei diritti fondamentali, «principi elementari dell'ordinamento», come tali dotati di una acquisita natura giuridica. A ciò conseguirebbe una nuova ‘validità': il diritto positivo fonderebbe «in un ordine oggettivo... valori sostanziali», superando nel contempo una validità ancorata alla mera «legalità procedurale». Se dunque, afferma l'Autore, «la costituzione riconosce alcuni valori... come oggettività ideali» e li traduce in «principi giuridicamenteLuigi Mengoni, cit., p. 1108 ss., per sottolineare una duplice peculiarità: da un lato, la possibilità del superamento di una tecnica "autoreferenziale", attributiva come tale di un valore essenzialmente rivolto all'individuo, dall'altro, nel recupero del diritto come valore, un'auspicabile «effettività del principio di solidarietà» necessario ad un ordinamento giuridico «multiculturale» - così p. 1110.

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