Oggi, siamo qui a riflettere insieme in un tempo che ci tiene sospesi. È un tempo nel quale la globalizzazione, generata nella logica del profitto dalle leggi del mercato e della finanza, sembra essere sopraffatta da una pandemia che coinvolge l’intera umanità, dal Nord al Sud del mondo.

                                                                                                                            

 

                      L’umanità vulnerabile e le nuove frontiere del diritto

 

Anzitutto vorrei esprimervi la mia gratitudine per questo invito. È un dono per me condividere un’iniziativa che mi permette di conoscere tanti e ritrovare chi già conosco.

Oggi, siamo qui a riflettere insieme in un tempo che ci tiene sospesi. È un tempo nel quale la globalizzazione, generata nella logica del profitto dalle leggi del mercato e della finanza, sembra essere sopraffatta da una pandemia che coinvolge l’intera umanità, dal Nord al Sud del mondo. Volti di persone, storie personali e familiari raccontano una sofferenza che tutti ci riguarda e ci accomuna, nella quale ci sono beni che non si vendono né si comprano: non il tempo, non la gratuità di chi si spende per gli altri. Vulnerabilità e fragilità ci riconsegnano alla nostra umanità, al di là dell’età, giovani e anziani, della condizione sociale, umili e potenti, cittadini e governanti.

Le vicende che viviamo ci rendono più consapevoli di un’eguaglianza che si misura sulla pari dignità, propria dell’umanità di ciascuno, senza attributi o preferenze, senza scarti ed esclusioni. Nella pandemia, che tutti ci coinvolge, l’umanità ci rimette davanti al tema della vita, primo fra i diritti umani inviolabili e fonte degli stessi; quel diritto nel quale il dramma della sofferenza mette a nudo anche le innumerevoli ingiustizie.

Osserviamo la realtà, come a noi si offre in questo tempo. L’intervento di assistenza e cura della salute è riservato a tanti; gli ospedali si fanno luoghi di accoglienza e testimoniano impegno e dedizione, ma non così per tutti. Fra questi, “ultimi”, ecco quelli rimasti “senza tetto” e anch’essi chiamati, ognuno sdraiato in un posto auto tracciato sull’asfalto a cielo aperto, a rispettare la distanza prevista ad evitare il contagio. Una sicurezza che la “regola” impone; e nessuno certo intende cancellare la doverosità della norma. Ma le stesse misure possono essere discriminatorie per i più poveri, per le famiglie disagiate, i bambini, gli anziani costretti in una solitudine difficile da affrontare, lavoratori senza tutele… Le norme dunque in sé non bastano per fare del diritto il luogo della giustizia. È questo l’anelito che si fa attesa nel grido dei poveri, domanda in chi ha subito un’offesa, esigenza nella qualità delle norme giuridiche che regolano la convivenza, ricerca nelle pratiche di risoluzione dei conflitti e tutela dei diritti.

Dinanzi alle tante fragilità d questo tempo, la scienza, la politica, l’economia, cercano i modi per prestare soccorso, ma non mancano contraddizioni e incapacità nel fronteggiare un contagio virale e i tanti “vuoti di tutela”. La narrazione di un progresso capace di renderci più liberi ed eguali, l’orizzonte di una tecnologia sempre più protagonista della storia, un mercato globale chiuso a soddisfare gli interessi di pochi, sono aspetti che non bastano a un’umanità che si riscopre fragile e vulnerabile nei ricchi come nei poveri, nei potenti come negli emarginati e ultimi della Terra.

La pandemia ha trasformato anche nella quotidianità i nostri ritmi di vita, i nostri rapporti interpersonali, e dimostra che nessun fenomeno sociale o naturale è come tale indifferente per il diritto, né il diritto può rimanere indifferente là dove i più deboli attendono tutela; ma non per bisogni dettati dal consumo, ma per i bisogni dettati dall’esistere come persona nella propria connaturale dignità umana[1].

Se così è, anche la fine della vita, non può essere un numero che aumenta la somma nelle statistiche nazionali e mondiali; è un evento che racconta spesso abbandono e solitudine e rende legittima la domanda: può, e fino a che punto, una pandemia limitare diritti fondamentali? Diritti di libertà, nelle sue più varie espressioni, di libera circolazione, di lavoro e svolgimento delle attività economiche? Certo, la vita e la salute precedono come diritti fondamentali, fino a ricordarci che la salute è il diritto anche dell’altro e acquista una dimensione pubblica.

Avvertiamo qui l’eco di un’altra narrazione, racchiusa in quella domanda rivolta a Caino, dopo l’uccisione di Abele, “dov’è tuo fratello?”. E alla risposta di Caino, “sono forse io custode di mio fratello?”, sembra far eco nel nostro tempo quanto Jürgen Habermas afferma della giustizia: «intesa in senso universalistico pretende che ciascuno sia responsabile per l’altro»[2]. Il fondamento va dunque ricercato sempre nella persona, tanto che, nella lettura del giurista Piero Calamandrei, la stessa legalità arriva ad essere spiegata con il comando: «non fare agli altri ciò che non si vuole sia fatto a noi stessi», fino a «sentire nella sorte altrui la nostra stessa sorte»[3].

Quel drammatico e imprevedibile dilemma, posto dalla pandemia nell’alternativa fra la salute di tutti e i diritti fondamentali di ognuno, interpella anzitutto noi incamminati in nuovi e inediti percorsi di solidarietà concreta; ma interpella anche il diritto nella sua vocazione ad accordare tutela. Di recente, il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky ha definito il diritto «una trama di relazioni sociali»[4]; una definizione che suggerisce a sua volta una domanda: può la tecnologia, per quanto indispensabile, tessere essa sola quella “rete” che deve generare la comunità?

Oggi, ci sentiamo chiamati a “prenderci cura” gli uni degli altri, ma per farlo occorre tornare a quella reciprocità originaria, di diritti e doveri, così che l’altro non diventi “oggetto” della cura, ma pienamente “soggetto”, a comporre con me le molteplici relazioni della convivenza. Anche le norme, ad essa necessarie, dovrebbero al di là dei vincoli avere la funzione di favorire legami fra cittadini, e fra cittadini e realtà sociali.

Mi è capitato in questi giorni di leggere una bella espressione, che riflette la ricerca volta a superare la frattura tra il diritto e il mondo: il primo, ridotto a mera tecnica normativa, e il secondo complesso, ma pur sempre custode di valori. Lo sguardo si volge a un diritto da ripensare non più chiuso nella sua autosufficienza, ma «in ascolto delle istanze, delle priorità, dei problemi»[5].

Penso a un “diritto in ascolto” del grido silenzioso di tanti: così, l’umanità ferita potrà ricomporre dal basso la sua rete di relazioni, per riallacciare nuovi nodi, oggi intrecciati dal dolore. Ci coglie in modo inaspettato, ma fa cadere condizionamenti e pregiudizi, apparenze e stereotipi, per metterci a contatto gli uni con gli altri e riannodare relazioni in qualche modo perdute.

Allora, la domanda: «può essere mio prossimo, può essere mio fratello anche colui che non scelgo, che non ammetto […]; colui che non abita il mio stesso spazio […], che non ha i miei stessi pensieri»[6]? – quella domanda non ci trova impreparati in una sorta di rassegnazione o di ripiegamento su di sé, perché quasi inconsapevolmente oggi una fraternità nascosta muove il nostro agire. La libertà, che si tende come diritto fondamentale a difendere a tutela della propria individualità, senza debito alcuno verso l’altro, si mostra capace di farsi dono in quella porzione che sono disposto a perdere per assicurare la salute, diritto di tutti. L’eguaglianza, misurata spesso sulle prerogative rivendicate per sé e dimentica dell’altro, può trovare nella fraternità un principio vivente: si fa modalità dell’agire in chi, anche per un anziano solo, si fa compagnia e assistenza, dimentico di sé.

Un libretto pubblicato di recente del filosofo Edgar Morin s’intitola La fraternità, perché? In una profonda riflessione sul nostro tempo traccia le linee di una fraternità non imposta da norme, ma che trova la sua fonte nel bisogno del noi e del tu. Oggi, proprio il distanziamento sociale ce lo sottolinea nella mancanza che avvertiamo di chi non può esserci vicino, di un contatto, una presenza. La fraternità, lo sappiamo, può essere “chiusa” - anche in un nazionalismo - o “aperta”, là dove riconosce umanità allo straniero e si riconosce componente dell’intera comunità umana[7]. È questa la fraternità che prende vita in un ritrovato tessuto relazionale: nel ‘legame’, da riconoscere o generare in quella situazione di abbandono dove la relazione manca; nel ‘ponte’, immagine simbolica o reale, ma sempre necessario a unire o a percorrere la distanza fra soggetti lontani, per trasformarla in un incontro.

Allora, da dove cominciare per un cammino di scoperta della fraternità nell’ambito di un diritto così radicato nell’individualismo, oggi diffuso e “complice” in qualche modo di una “cultura dello scarto”? È viva nel povero, privo anche dell’acqua, essenziale per una igiene pur minima; negli anziani, esclusi dalle priorità nelle cure sanitarie; è la realtà di chi vive fra gli “invisibili”, ai margini della società, o in chi non ha accesso al lavoro.

Ma proprio le relazioni, al cuore del diritto e oggetto delle norme, costituiscono l’essenza stessa della fraternità. Essa esige per sua natura la relazione e ne diventa principio informatore: là dove le norme pongono vincoli, la fraternità genera “legami” fra le persone, trasformando l’anonima “popolazione mondiale” in famiglia umana.

Quale allora il futuro? Dove cercare? Vorrei concludere con le parole di Marcel Proust: Il viaggio di scoperta consiste non nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi.

Adriana Cosseddu

 

[1] Cfr. le riflessioni emerse nel dialogo dal titolo La pandemia aggredisce anche il diritto?: professori e magistrati rispondono all’intervista di F. De Stefano - https://www.giustiziainsieme.it/it/easy-articles/composer/961/1477#_edn2

[2] J. Habermas, Die Einbeziehung des Anderen. Studien zur politischen Theorie, Frankfurt am Main, 1996, trad. it. L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, a cura di L. Ceppa, Milano, 2008, p. 42 s.

[3] P. Calamandrei, Fede nel diritto, a cura di S. Calamandrei, Roma-Bari, 2008, pp. 85 e 103 ss.

[4] Id., Diritto allo specchio, Torino, 2018, p. 386.

[5] M. Zanichelli, Introduzione. Per un diritto in ascolto, in Il diritto visto da fuori. Scienziati, intellettuali, artisti si interrogano sul senso della giuridicità oggi, Milano, 2020, p. 13.

[6] L. Alici, Il terzo escluso, Milano, 2004, p. 138.

[7] E. Morin, La fraternità, perché? Resistere alla crudeltà del mondo, Roma, 2020, in particolare, pp.15 ss. e 43 ss.

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